Qualche anno fa a Fano funzionava un terreno di campo scout fisso, utilizzato soprattutto per i corsi di vela. Era posto vicino al mare; ma andiamo a leggere la sua storia
Una volta il terreno di quella località era appena sul
livello del mare e quando le onde in tempesta riuscivano,
durante l’alta marea, a superare la striscia sassosa della spiaggia, si trasformava in un ampio acquitrino.
Anche durante la buona stagione rimanevano pozze
di acqua stagnante riparate da cespugli di canne.
Per questo suo aspetto la zona era considerata maledetta
dagli abitanti della città, ed anche malsicura perché
in essa vi trovavano facile rifugio e nascondiglio vagabondi
e malandrini. Sembra che tra le canne sorgessero
anche delle capannucce o delle baracche, ma nessuno
poteva affermarlo con certezza, poiché si tenevano tutti
alla larga e se qualcuno aveva necessità di transitare nelle
vicinanze, prima si segnava per la paura, poi affrettava il
passo e procedeva con lo sguardo rivolto a terra, per non
destar sospetto di voler spiare o anche solo vedere. Se
era possibile tutti preferivano passare più lontano anche a costo di allungare di molto il cammino.
Di certo si sapeva che in mezzo alla palude era stata
costruita in modo più stabile una baracca e che era abitata
da sette fratelli, siprannominati dalla pubblica opinione
“I sette vizi capitali”.
La definizione era azzeccata ed essi facevano di tutto
per mostrarsi degni di quell’etichetta. In città difficilmente
avrebbero trovato un alloggio, né avrebbero avuto la
possibilità di potersi muovere senza controlli per i loro
loschi affari, così come invece erano liberi di fare in quel
loro regno fuori mano e così ben protetto, sui confini,
dalla paura degli altri.
La loro condotta valeva il nome e la fama che si
erano meritati e la paura che incutevano.
Oltre alla baracca in mezzo agli acquitrini possedevano
anche una barcaccia che serviva per i loro loschi traffici. Normalmente la tenevano ormeggiata poco
distante o tirata in secco sulla spiaggia.
Per le faccende di casa e altri servizi avevano preso
un povero orfanello, più o meno sui dodici anni, e lo
obbligavano a lavorare sodo in cambio degli avanzi della
loro mensa e di molte percosse. Spesso era anche oggetto
di scherzi malvagi.
Unica consolazione per quel ragazzetto di nome
Alberto era la compagnia di un cane randagio, che si
azzardava ad avvicinarsi alla baracca solo quando i
padroni erano via con la barca. Una volta, infatti per
eccessivo ottimismo o solo per distrazione, aveva trascurato
la regola e si era buscato una scarica di legnate, per
cui in seguito, non tentò più di ripetere l’esperienza.
Controllava la situazione da lontano e appena si rendeva
libera la strada, correva a far festa al suo giovane
amico che lo contraccambiava con molta effusione e
qualche osso. Tutti e due avevano bisogno di affetto, poiché
il mondo era stato avaro con loro.
Una bella sera di luna piena, i sette fratelli ritornarono
molto allegri e soddisfatti poiché, a loro avviso,
avevano concluso un «ottimo affare». Lungo la strada
di Ancona, oltre la foce del Metauro, avevano assalito
un ricco mercante, lo avevano percosso duramente e
derubato. Poiché non dava più segni di vita, avevano
caricato il suo corpo sulla barca, per farlo sparire in una
zona più lontana. Il bottino superava le aspettative e perciò decisero di
fare grande baldoria.
Alberto aveva lavorato tutto il pomeriggio per preparare
una zuppa di pesce. In tavola furono portati alcuni
fiaschi di vino buono. Ad un certo momento della
festa, i sette fratelli sotto l’effetto del «verdicchio», oltre
che della loro cattiveria, decisero di giocare un brutto
scherzo ad Alberto, ignaro degli antefatti della giornata,
e del morto.
«Vai a prendere - gli dissero - quel sacco ch’è sotto il
telone, nella barca». Poi si prepararono a sghignazzare
per la paura del ragazzo. Si apettavano un grande urlo di
spavento ma udirono invece un tremendo colpo contro
la porta, che si spalancò violentemente. Nel riquadro
apparve il morto con gli occhi di fuoco e l’indice minacciosamente
puntato contro i presenti.
Con un tono di voce che non lasciava dubbi disse:
«La catena delle vostre nefandezze è al termine e vi
avvolge tutti. Avete stuzzicato anche la morte e la morte
ora viene a prendervi. Venite con me!».
«I Sette vizi capitali», rimasti sul momento immobili
per la paura, come rispondendo ad un appello, tentarono
allora di alzarsi ma inutilmente perché ad uno ad uno
invece strabuzzarono gli occhi con una smorfia diabolica
e rotolarono giù dalle sedie, rimanendo poi immobili
sul pavimento. Alberto intanto era entrato per l’altro
ingresso.
Una gran ventata rinchiuse la porta sul buio della
notte e quando, dopo qualche minuto, il povero garzone,
con i capelli diritti per lo spavento, si slanciò fuori per
chiedere aiuto, non vide più nessuno. Anche la barca,
strappati gli ormeggi, era sparita nella notte.
Il ragazzo col cuore in gola, corse allora in città ed
ebbe qualche difficoltà a farsi aprire la porta dalle guardie.
Nel cielo, illuminato da una fredda luna piena, correvano
sette nuvoloni neri, simili a trombe d’aria; gli scuri
delle finestre sbattevano, i grandi alberi vicino al castello
gemevano e si piegavano verso terra; i cani ululavano…
Era una notte d’inferno che faceva gelare il cuore e tremare
le ossa.
Le guardie sentendo bussare violentemente alla
porta delle mura ed udendo dei gemiti, presero molte
precauzioni prima di aprire e si meravigliarono molto nel
vedere il ragazzo piangente in quell’ora tarda.
Il cane lo seguiva guaendo, con le orecchie basse e la
coda tra le zampe.
Prima dell’alba nessuno si azzardò ad uscire per fare
un sopralluogo. Col sole, il Capitano del popolo, un
nugolo di guardie e il parroco della cattedrale andarono
a controllare.
Non potendo seppellire i sette briganti nella terra
benedetta del cimitero, fu scavata per loro un profonda
fossa, vicino alla capanna; poi vennero tutti gli abitanti di
Fano a scaricare con entusiasmo terra e sassi sui cadaveri.
L’incubo era terminato: i «Sette vizi capitali» erano
sepolti, ma per paura di rivederli, i fanesi continuarono
ad accumulare materiale sulla loro tomba, fino ad elevare
una montagnetta.
La capanna fu bruciata; le monete e gli altri oggetti
di valore recuperati furono regalati al ragazzo, che trovò
ospitalità di ben altro tipo presso i frati di S. Agostino e
in seguito divenne un bravissimo artigiano. In alcune
chiese di Fano si conservano ancora cornici e decorazioni
di legno scolpite, attribuite alla sua mano.
La zona attorno alla «collina dei Sette Vizi Capitali»
rimase per alcuni secoli abbandonata. Nessuno si arrischiava
a coltivare il terreno adiacente, nessuno desiderava
approdare con la barca alla spiaggia vicina.
Qualcuno poi giurava di aver visto nella notte della luna
piena di luglio sette nubi a colonna elevarsi in mezzo al
mare, oltre la collina, tra forti raffiche di vento.
Cinquant’anni fa, i militari in cerca di una zona per
costruire un poligono di tiro, pensarono di sfruttare la
montagnetta come parapalle e così la zona ebbe un suo
nuovo assetto. In seguito, dopo la seconda guerra mondiale,
il poligono fu abbandonato e il terreno adiacente
fu per qualche anno impiegato dagli scouts, come ho già
detto, per i loro campi scuola di vela.
Nel 1979 il reparto di Villanova ebbe la bella idea di
fare un campo marino e non trovò difficoltà nel poter
usufruire di questa base e delle sue attrezzature.
La sera del 9 luglio, in occasione della luna piena, al
termine del bivacco io ebbi la malaugurata idea di raccontare
la leggenda del luogo. Quando iniziai il cielo era
sereno e nessuno poteva immaginare quanto sarebbe di
lì a poco accaduto. Al termine della narrazione, per uno
di quei repentini cambiamenti atmosferici che qualche
volta si verificano nelle zone marine, iniziò a spirare un
forte vento; il cielo si oscurò da un lato e tutti videro
chiaramente, oltre la collinetta, sette nubi verticali che
correvano verso la luna. Ci precipitammo verso le nostre
tende, ma senza successo, perché la tromba d’aria ormai
le stava abbattendo tutte senza misericordia. Noi cercammo
di salvare il salvabile aggrappandoci ai sopratetti
che volavano via come foglie al vento tra raffiche di
pioggia. Di li a qualche minuto la bufera cessò e d’improvviso
tornò la calma. Per poter ripiantare il campo
dovemmo rastrellare tutto il prato e lavorare fino a notte
inoltrata.
Era la notte di luna piena di luglio e tutti avevano
chiaramente visto le sette nubi nere, simili a trombe d’aria.
Se non fossi stato testimone della coincidenza, non
avrei creduto…