Una vecchia storia...
Gli scouts di Villanova hanno la loro sede a poco più di un
tiro di schioppo, come si diceva una volta, dal fiume Savena.
Le acque del fiume, un po’ torbide, scorrono entro un
canalone verdeggiante scavato nella pianura e vanno a confluire,
poco più avanti, in quelle dell’Idice, pressappoco dove
erano, una volta, le capanne degli antichi Villanoviani, famosi
per aver preceduto gli etruschi, nella lavorazione del ferro.
La storia parla di «civiltà villanoviana”» non senza un certo
velo di mistero e ne sappiamo qualcosa noi che abitiamo sul
posto. Infatti, anche se i reperti archeologici sono ormai nei
musei, qualcosa è rimasto nell’aria. Vecchie storie che poi, col
tempo, si sono aggiornate; vaghi timori notturni che si risvegliano
al comparir della luna piena tra i pioppi; personaggi
morti da chissà quanto tempo ma che rinascono continuamente
nella memoria della gente, con contorni e fisionomie qualche
volta precisi e qualche volta, invece, sfumati verso la leggenda.
Una volta, sull’aia o nelle stalle, si parlava molto di più
di loro: semplici episodi della vita, venati d’umorismo, diventavano
un mito e certe battute del loro linguaggio assumevano
dignità di proverbio o di modo di dire, consolati dalla frequente
citazione.
Oggi invece tutti guardano «mamma televisione». Ci
pensa il piccolo schermo a fornire i ricordi, mummificati in
immagini, e ad arricchire il linguaggio comune in modo
uniforme per tutta la comunità nazionale. E così i vecchi personaggi
di paese entrano melanconicamente nell’inceneritore
della storia locale, nella discarica della fantasia.
Chissà se un mondo senza fantasia sarà bello? Ne dubito!
Gli scouts e le guide sono certamente dei ragazzi del futuro:
il nome e l’età lo garantiscono. Non disdegnano tuttavia
recuperare anche il passato. Dice infatti una massima africana: «se bevi in un pozzo, ricordati di chi lo ha scavato!».
Per questo, più che accettare le rappresentazioni dei fatti
e le soluzioni predisposte dal supermercato televisivo o dai
mass-media, come si dice oggi, gli «esploratori» preferiscono,
quando è possibile vedere coi propri occhi e parlare direttamente
con la gente.
L’esplorazione d’ambiente chiamata anche «Hike», è una
delle loro attività preferite, perché permette di acquistare la
capacità di vedere e di ascoltare, che poi aiuterà a capire ed
in seguito ad agire con cognizione di causa.
In campagna ci sono tante cose da vedere e da capire e
s’incontra ancora tanta gente capace di raccontare, specialmente
tra i più anziani.
Gli scouts di Villanova qualche volta vanno ad accamparsi
vicino alla confluenza dei fiumi, in una zona chiamata
localmente «l’ Alta».
Forse su quella spianata sorgeva l’antico villaggio villanoviano;
forse in tempi più recenti i Galli vi posero il loro accampamento, di fronte a quello romano di Publio Scipio
Nasica che, stando allo stemma del comune, era piazzato al di
là del fiume Idice.
Se fossero qui i due accampamenti, o più a nord, è motivo
ancora di discussione, ma certo è che lungo i secoli molta gente
si è fermata sull’ «Alta» a contemplare lo scorrere del fiume,
più impetuoso d’inverno, più tranquillo d’estate. Dicono che lo
abbia fatto anche... il diavolo e che l’attuale percorso del
Savena lo abbia tracciato proprio lui, in un momento di collera.
I vecchi della zona raccontano ancora una leggenda che i
nostri scouts hanno raccolto e qualche volta anche presentato,
con grande divertimento, al fuoco di bivacco.
La prima parte del racconto è comune a leggende di altre
località. Qual è infatti quel paese che non ha il suo «ponte del
diavolo?». Forse dipende dal fatto che il demonio è furbastro
ma poco scaltro e soprattutto monotono.
Ascoltate, dunque, e cercate d’immaginare le scene con gli
occhi della fantasia.
Le vecchie carte geografiche dicono che qualche secolo fa
il fiume Savena non si gettava, come oggi, nell’Idice, vicino
all’«Alta». Andava invece pigramente in tutt’altra direzione:
più ad ovest. A nord di Bologna c’è infatti un vecchio canale
che si chiama ancora Savena abbandonato e verso la circonvallazione
sorge un’antica chiesa parrocchiale che porta il
titolo di S. Antonio di Savena, pur essendo ormai molto
distante dall’attuale fiume omonimo.
Come mai è avvenuto un cambiamento di corso così radicale?
I Koala - questo è il nome di una squadriglietta di guide
più o meno bionde - credono di aver trovato la spiegazione di
questo mistero interrogando una vecchia contadina, tanto vecchia
che era già al mondo prima che Garibaldi morisse. Ecco
il racconto della nonna Chiarina:
Qui sull’Alta, la vita era difficile, il terreno sembrava
quasi stregato e ogni tanto affioravano delle zolle
nere, che parevano uscite dall’inferno. Chissà che cosa
doveva esser accaduto nei tempi passati.
Un giorno, il nonno di mio nonno, ma forse era il
bisnonno, vide un ometto seduto sul bordo di un fosso,
sotto una «piantata» di vite.
- Che cosa fai lì?
- Cerco lavoro da garzone e mi accontenterò. Non
giudicarmi dall’apparenza. So fare tutto e quindi potrei
aiutarti moltissimo, anzi potrò farti ricco se mi ascolterai.
La proposta era allettante per un povero contadino,
abituato a mangiare polenta, spesso condita con… niente!
- Mettimi alla prova e sarai contento.
Il nonno aveva da sterrare tutti i fossi. Prese una
vanga e chiese al forestiero:
- Quanto tempo vuoi per rimettermi in sesto tutte le
scoline?
Era un lavoraccio da rompere le braccia per un stagione,
ma il nostro ometto assicurò che lo avrebbe portato a termine al massimo in due giorni.
La notte tirò un gran vento e tuonò come mai si era
sentito; pareva che cento barrocci solcassero il cielo.
Al mattino tutti i fossi erano netti, squadrati e nella
giusta pendenza.
- Sei contento del lavoro? - chiese l’ometto mentre i
suoi occhi lampeggiavano in modo strano.
- Che compenso mi darai? - soggiunse.
- Bravo! Ti darò tutto quanto crescerà su questo
campo, tra la «cavedagna» e quella piantata d’uva. Torna
al momento del raccolto - rispose il nonno, un po’ insospettito,
e non a torto.
Al momento giusto l’ometto arrivò tutto baldanzoso,
ma rimase con un palmo di naso. Nel campo erano state
seminate rape e patate, che crescevano sottoterra; a lui
spettavano solo delle foglie ingiallite.
Il diavolo, avrete già capito che si trattava di lui,
arrabbiato disse che non si erano intesi bene ma che era
ancora disponibile per altri lavori, in cambio dei quali il
prossimo anno avrebbe ricevuto tutto quanto sarebbe
cresciuto sottoterra, sottoterra - ripeté - non in un
campo ma in due, da segnare subito perché non ci fossero
equivoci.
Il nonno in cambio gli fece scavare un macero, che
fino a qualche anno fa era visibile e in funzione. La fantasia
popolare lo aveva battezzato: «Al masnadur ad
Berlech». Berlicche, lo sapete, è uno dei nomi del diavolo.
Anche quella volta fu sufficiente una notte di lavoro:
due grosse ruspe non avrebbero fatto né meglio né
prima. L’opera era proprio completa poiché l’artista, per far apprezzare le sue indubbie capacità, aveva anche
sistemato in bell’ordine sulle rive, alcune pile di grossi
sassi: quelli che dovevano servire per «affondare» la
canapa.
Al momento del raccolto il diavolo provò un altro
grosso dispiacere poiché il nonno aveva seminato solo
grano e pomodori.
Si arrabbiò moltissimo e per spaventare il malcapitato
che aveva osato prendersi gioco di lui, riprese le sue sembianze
originali, con corna e piede caprino.
- Ora voglio la tua anima - urlò con un vocione
rauco. Il nonno però, essendo devoto a S. Giuseppe e a
S. Michele arcangelo, non si spaventò oltre quel tanto.
Gli era necessario mantenere la calma, per cercar di uscire
da quell’inghippo senza troppi danni.
- Non ci si può prendere gioco di me - soggiunse
Berlicche - senza pagare caro. Voglio tutto e subito!
- E va bene! Ma almeno un altro lavoro dovrai pur
farmelo - ribatté il nonno, mostrando un pennello ed un
barattolo di vernice.
Visto che il risultato sembrava ormai raggiunto e l’ultima
prova da superare molto semplice, il demonio si
rabbonì.
- Ordina - disse - e preparati a pagarmi subito.
Il nonno, che aveva mangiato una bella zuppa di
fagioli, emise allora un bel “venticello fisiologico”; gli uscì
di corpo con una certa melodia e con un bel crescendo.
- Ed ora - disse - pitturala di rosso…!
Vergognoso (si fa per dire) per la beffa subita, il diavolo
s’infuocò tutto e fece per prendere il volo e scomparire.
Ma diavolo era e strisciò solo a lungo per terra,
sollevando un gran polverone; tentò un gran salto e subito
ricadde con un contorno di scintille e odor di zolfo e
infine sprofondò sibillando in un gran buco, che intanto
si era aperto nel suolo.
Quando si diradò la polvere e l’acre odore, il nonno
ebbe la sorpresa di vedere che la strisciata del diavolo aveva scavato un gran canale ai confini del suo podere,
fino al fiume Savena, le cui acque ormai trovavano piùcomodo
iniziare un nuovo corso lungo questo passaggio.
Rimaneva il buco, di cui non si riusciva a vedere il
fondo; anche facendo cadere dei sassi non si udiva alcun
tonfo. I paesani lo trovarono comodo per scaricarvi dentro
il pattume. Poi arrivarono anche i bolognesi con i loro
rifiuti e in due secoli riuscirono a colmarlo, anzi a farvi
sopra una montagna di «rusco», come lo chiamano qui.
Con questo gran tappo fu preclusa l’uscita del
demonio.
- Per quanto sia sudicio e puzzolente, farà fatica ad
uscire di qua - disse qualcuno.
- Qualche passaggio più facile lo deve però aver trovato
in un’altra località: basta leggere i giornali per averne
conferma.
E così, raccontano, il fiume Savena cambiò corso e la
città di Bologna trovò una discarica per il pattume là
dove avvenne la svolta.
La montagna di «rusco» si vede bene passando per
la tangenziale, nei pressi dello svincolo di S. Lazzaro di
Savena.
Sarà poi vero che le cose sono andate così? Gli
scouts e le guide lo raccontano al fuoco di bivacco quando
si accampano sull’«Alta». Forse lo fanno solo per spaventare
un po’ i più piccoli!