Racconti al Fuoco di Bivacco
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Un sorriso scout
2017-01-06 22:40:35
Anche un sorriso scout può diventare qualche volta leggenda

Il 13° Jamboree mondiale verrà forse ricordato come il Jamboree del ciclone anche se nella storia dello scautismo ci sono stati altri esempi di Jamboree bagnati. Basterebbe ricordare - solo nel dopoguerra - i Jamboree mondiali del Canada e dell’Inghilterra. Questa volta però siamo usciti dai limiti della decenza per entrare nelle dimensioni della calamità naturale, nel caso di emergenza. Per due giorni ed una notte , sovvertendo anche il calendario meteorologico, l’acqua continuò a cadere a vasche ed il vento a soffiare a più di cento chilometri all’ora. La precipitazione eguagliò quella media italiana di un anno. Pur essendo il Campo distante ottocento chilometri dall’occhio del ciclone ci ritrovammo tutti bagnati, infangati ed allagati. Il sacro monte Fuji, ai piedi del quale campeggiavamo, è un vulcano, uno dei più famosi del mondo. Il terreno del Jamboree era quindi nero, polveroso, già fastidioso col bel tempo. Figuratevi con la pioggia! Si trasformò in un fango vischioso, tenace, che imprigionava le scarpe e le risucchiava, che ti inzaccherava irrimediabilmente fino ai capelli che si trasformava diabolicamente in rigagnoletti neri, pronti a scendere con matematica precisione dall’alto dei tendoni sul tuo collo, quando meno te lo attendevi, ed a penetrare, freddi, tra la camicia e la pelle, fino all’ombelico. Nulla potè resistere a tanta furia naturale: i portali furono irrimediabilmente distrutti, abbattute molte antenne ed altre costruzioni. Gli scouts giapponesi con la tristezza nel cuore dovettero smontare, in un clima di disfatta, i grandi tendoni che avrebbero potuto in casi normali servire come riparo e rifugio, ma che ora stavano irrimediabilmente lacerandosi e riducendosi a brandelli. Sembrava di vivere in una palude, spazzata dal vento impetuoso. Acqua di sopra, acqua di sotto, acqua di fianco portata dalle raffiche improvvise e micidiali della burrasca. Per rimettere all’asciutto gli scouts, immersi fino al collo in tale pantano, la direzione del Jamboree decretò l’emergenza e decise saggiamente di sfollarli con tutti i mezzi, almeno per una notte, nelle caserme, nelle scuole, nelle «bonzerie» del circondario. Iniziò così il grande esodo che per i più pessimisti sembrava ormai senza ritorno. Possibile che il Jamboree dovesse finire dopo solo tre giorni? Noi del Quartier Generale Italiano fummo alloggiati, insieme con un altro migliaio di scouts, in un college per l’aggiornamento dei giovani professionisti. Fu una specie di invasione delle formiche, c’erano scouts ovunque, in tutte le stanze, in tutti i servizi, in tutte le aule. Gli Scouts del Reparto italiano con i loro capi furono invece trasportati in una caserma. Cercammo invano di sapere dove fosse questa caserma, per poter ristabilire qualche contatto ma ogni cosa pareva essersi disciolta nell’acqua. Le nubi impazzite correvano basse nel cielo, sfumando ogni contorno dietro cortine d’acqua filacciosa. Che cosa ci fosse al di là era mistero, mistero d’oriente: panorami che si rinnovavano continuamente, dimensioni che mutavano plasticamente come le nubi del cielo. Col fatalismo tutto orientale decidemmo di attendere, incapaci ormai di formulare qualsiasi previsione. Stendemmo i nostri sacchi-letto per terra e ci avviammo verso il refettorio, l’unico ambiente capace ormai di riportarci ad una visione reale e concreta della situazione. I giapponesi avevano fatto miracoli mettendosi in condizione di alimentare tutti con una cena calda. Occorreva fare la fila perché l’ambiente era sproporzionato all’invasione, ma il successo era assicurato. Ci sentivamo molto Coolies in paziente attesa di un pugno di riso dopo una giornata di duro lavoro ma anche ormai sufficientemente asciutti per considerare l’avvenire con una creatività tutta occidentale. Io credo che certo fatalismo orientale dipenda proprio dal fatto di vivere continuamente in un clima umido, in un ambiente bagnato, in mezzo a fiumi e a risaie. Un uomo con le mutande bagnate perde le sue capacità di reagire, di comportarsi normalmente; la sua visione dinamica della vita sfuma in un pessimismo paralizzante, che lo appiattisce e lo rende timoroso verso gli «asciutti», vera casta superiore. Io e Sandro, il commissario centrale della Branca Esploratori di GEI, stavamo dunque attendendo con pazienza orientale ed ottimismo occidentale, il nostro turno di cena, quando fummo scossi da un grande colpo, quasi una esplosione, prodotto alle nostre spalle. Al colpo seguì la carettistica sinfonia di una grande vetrata che cade per terra, distrutta in mille pezzi. Un piccolo scout filippino, correndo verso il refettorio, era passato attraverso la vetrata chiusa, demolendola ed ora giaceva a terra, a dir poco intontito ma forse pure lui demolito dal tremendo urto. Io e Sandro ci precipitammo in suo soccorso, cercando di immaginare rapidamente, durante i cinque metri che ci separavano da lui, tutte le soluzioni di emergenza possibili, compreso l’eventuale funerale. Fortunatamente il caso non era poi così grave: molte piccole ferite ancora piene di frammenti di vetro ma nessuna profonda, ed un grosso stordimento per la potente «capocciata». Con grande delicatezza cominciammo a togliere i vetri infilati nella pelle ed a controllare che non ci fosse nessuna frattura. Dopo pochi istanti l’infortunato riprese piena coscienza, spalancò tanto d’occhi e, vedendoci chini su di lui per soccorrerlo, non trovò per il momento altro modo di esprimerci la sua gratitudine che di spalancare anche un largo sorriso. Scout che sorride, male che passa! Tirammo tutti un sospiro di sollievo dimenticando le angustie nere che per un attimo avevano albergato in un angolo del nostro animo. Partite le angustie, arrivò un capo australiano, medico, che si prese in carico l’infortunato lasciando capire in modo palese che esso avrebbe usufruito in modo privilegiato di tutte le sue competenze professionali, ben superiori alle modeste e dilettantistiche nozioni di pronto soccorso del medio scout mondiale, alla cui categoria il sottoscritto si onora di appartenere. Noi modestamente ci rimettemmo in fila in attesa del nostro riso. La mattina successiva cercammo un locale per la celebrazione della S. Messa. Non era cosa facile, perché l’istituto era pieno come un uovo, tuttavia la nostra buona volontà fu premiata. Trovammo una stanzettina che era quasi libera perché destinata ad infermeria. Non libera del tutto perché in un angolo, su di un divano, giaceva, fasciato come una mummia, Ernesto, il giovane scout filippino rompivetro. I suoi occhi, sempre molto espressivi, si illuminarono quando vide che stavamo apprestando l’altare su di un basso tavolino. Sorridendo ci pregò di aggiungere una particola anche per lui perché, essendo cattolico, desiderava partecipare alla S. Comunione. Durante la Messa fu obbligato a rimanere sdraiato per via delle fasciature, tuttavia prestò grande attenzione e quando Don Franco gli si avvicinò con l’Eucarestia spalancò il miglior sorriso del suo repertorio, perché stava ricevendo Gesù. Come Ernesto abbiamo incontrato al Jamboree molti esploratori, sereni, semplici e sorridenti, con lo sguardo limpido e la Legge scout dipinta sul volto, ragazzi capaci di portare un raggio di sole anche nel pieno di un tifone.

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