Sono passati molti anni da quando, in una terribile notte autunnale, un’immensa ondata d’acqua, uscita dalla diga del Vajont nel Bellunese, spazzò via quasi completamente la cittadina di Longarone.
Gli scouts di varie regioni d’Italia, poche ore dopo la
sciagura erano sul posto, per collaborare all’opera
di soccorso e di pietosa ricerca delle salme.
Arrivarono con le loro tende ed il loro equipaggiamento
perché in simili circostanze è fondamentale essere
autonomi.
Quasi tutti i soccorsi erano diretti a Longarone; gli
scouts si fermarono invece più a valle dove non c’era
quasi nessuno e grande invece era la necessità di intervento,
soprattutto per il recupero delle salme trasportate
dalle acque del Piave.
Gli scouts si misero subito al lavoro, in collaborazione
coi sindaci, con qualche vigile del fuoco e qualche
altro volontario. Non si trattava solo di recuperare le
salme, spesso irriconoscibili, ma anche di ricomporle,
vestirle e sistemarle in sacchi di plastica e nelle bare.
Poi iniziò la triste processione dei parenti, addolorati,
sconvolti, che cercavano i resti dei loro cari. Era
necessario accoglierli, in qualunque ora del giorno e
della notte, specialmente nel cimitero di Cadola, accompagnarli
tra le bare per facilitare la ricerca, consolarli.
Per la sepoltura dei morti le autorità decisero di
costruire un grande cimitero a Fortogna. Le scavatrici si
misero subito all’opera ma mancavano gli uomini per la
sistemazione delle bare. Arrivarono allora gli scouts a
dare il cambio agli unici quattro stradini comunali che
non ne potevano più dalla stanchezza.Forse più della metà del lavoro di Fortogna lo compirono
gli scouts: scaricarono le bare dai camion, le sistemarono
nelle fosse, le riaprirono più volte per permettere
ai parenti angosciati un eventuale riconoscimento,
dotarono ogni tomba di una croce ed aiutarono i dipendenti
comunali a compiere le formalità richieste.
A questo punto, ricordato il quadro generale di quella
grande catastrofe nazionale, ha inizio la nuova storia
che potremmo veramente definire «ai confini della
realtà». Ecco perché nel titolo ho parlato di «Leggenda»
del Vaiont.
Un Clan di Rovers trevigiani era impegnato nella
ricerca delle salme lungo il fiume ingombro di legname,
proveniente dalle costruzioni demolite dall’acqua, ed ora
accatastato nel più spettrale dei modi.
A mezzogiorno il Capo invita a sospendere i lavori
per una breve sosta ma poiché i rovers avevano ormai
affrontato una catasta di legname formatasi lungo un’ansa
del fiume, di comune accordo si decise di proseguire
ancora un po’ per terminare lo sgombero e di rimandare
di un’ora il pasto: una scatoletta di carne e un po’ di
pane.
Fu proprio verso le tredici che sotto tutto il legname
trovarono il corpicino di un bambino dall’apparente età
di cinque sei anni. Certamente la catastrofe lo aveva raggiunto
nel sonno e l’acqua lo aveva trasportato via così
com’era.Ora non gli rimaneva che una magliolina di lana
rivoltata stranamente sul viso. Quando la rimisero a
posto comparve un bel visino per nulla maltrattato dallo
sballottamento lungo il fiume, come purtroppo lo erano
invece le altre salme. Sembrava che continuasse il suo
sonno tranquillo, per nulla disturbato da quanto era
accaduto. I rovers raccolsero con cura religiosa il povero
corpicino e lo trasportarono al cimitero di Fortogna, sperando
di poter mettere un nome sulla sua croce. Lo rivestirono
per bene ed attesero qualche giorno prima di
seppellirlo.
Invano: nessuno si presentò per dargli una identità
ed allora furono costretti a calarlo nella fossa e a ricoprirlo
di terra.
Sembrava che seppellisero un soldato ignoto o un
martire delle catacombe. Forse la sua famiglia era stata
tutta distrutta: proprio per questo i rovers, pur abituati
dalla tragica circostanza ad una confidenza con la morte,
piansero come se stessero seppellendo uno di famiglia:
un loro fratellino più giovane.
Quella notte stessa, il rover che lo aveva ritrovato
per primo, se lo sognò pieno di vita in mezzo ad un bel
prato.
Nel sogno si avvicinò a lui e si mise gioiosamente a
giocare come aveva fatto tante volte con i lupetti del suo
Branco. Dopo una bell’ora di salti e di corse il bambino
lo salutò ma prima che la sua immagine sfumasse nelle nuvole del sogno, il nostro rover riuscì a domandargli:
«Come ti chiami?…».
«Arrivederci, oggi no, ma in una prossima occasione,
quando ci ritroveremo a giocare, te lo dirò…» promise il
bambino scuotendo i riccioli.
Al risveglio del mattino il rover raccontò il sogno e
non ci fu difficoltà da parte di tutti a spiegarlo e a giustificarlo.
L’impressione, il sentimento, la fatica della giornata
avevano ricreato tutte quelle immagini in un alone
di poesia, di sogno.
«Capita! Capita...!» fu il commento unanime.
Spiegazione più che ovvia per un sogno se esso non si
fosse ripetuto esattamente la notte successiva.
In questa seconda occasione, al termine dei giochi, il
bambino mantenne la promessa: «Mi chiamo - disse - …».
Voi al posto dei puntini immaginate un nome ed un
cognome tipicamente locali, che io per promessa fatta
non posso ora rivelare.
Il rover - a suo dire - non aveva mai sentito prima
d’allora quel cognome e quindi non poteva essergli riaffiorato
da qualche angolo della memoria.
Nessuno dei suoi compagni ebbe questa volta la spiegazione
facile, anzi nessuno si azzardò nemmeno a fare
delle ricerche su quel cognome: quel bimbo si chiamava
ormai così! Se malauguratamente si fosse scoperto che
quel nome non esisteva a Longarone si sarebbe disciolto
nel nulla un sogno a cui tutti ormai con commozione
davano credito.
Certo siamo ai confini della realtà poiché io che non
avevo gli scrupoli di quei rovers, le ricerche le ho fatte ed
ho scoperto che un bimbo di quell’età, con quel nome e
quel cognome a Longarone c’era. Posso dire di più: la sua famiglia fu tutta distrutta dal cataclisma.
In un angolo del camposcuola di Bracciano, sotto
un’immagine Mariana, posta a ricordo del servizio compiuto
dagli scouts al Vajont, è fissata una piccola bicicletta
tutta contorta, ritrovata dai rovers poco lontano dal
corpicino di quel bambinello. A questo punto potremmo
anche pensare che sia stata la sua.