I due palloni contiene una riflessione sulla responsabilità della vita e, in fondo, sulla inevitabile «fatica» che accompagna sempre il cammino dell'uomo
Due palloni erano usciti dalla fabbrica lo stesso giorno, erano finiti nello stesso sacco e portati nello stesso grande magazzino. Avevano fatto amicizia e così furono felicissimi di essere comprati dalla stessa persona. Finirono in un oratorio, dove sembrava che un'orda di ragazzi non stesse aspettando altro che prenderli a calci.
Lo facevano tutto il giorno, con un entusiasmo incredibile. I due palloni volavano, rimbalzavano, sbattevano, facevano gol, venivano parati, sbucciati, infilati nell'angolino alto e basso, crossati e colpiti di testa, sciabattati... Una vera battaglia quotidiana.
Alla sera, si ritrovavano nello stesso armadio, pesti e ammaccati: la loro bella vernice brillante, le inserzioni bianche e nere, la scritta rossa, si stavano rapidamente screpolando.
«Non ne posso più!», si lamentava uno. «Non è vita questa! Presi a calci dalla mattina alla sera... Basta!».
«Che vuoi farci? Siamo nati palloni», ribatteva l'altro. «Siamo stati creati per portare gioia e divertimento».
«Bel divertimento! Io non mi diverto proprio... E ho già cominciato a vendicarmi: oggi sono finito appositamente sul naso di un ragazzo e l'ho fatto sanguinare. Domani farò un occhio blu a quel tipo che mi sbatte sempre contro il muro!».
«Eppure siamo sempre al centro dell'interesse. Basta che compariamo noi e il cortile si anima come per incanto. Credimi: siamo un dono dell'alto alla gioia degli uomini».
«Bah! Ma se si sono scazzottati per un fuori...».
Passarono i giorni, e il pallone brontolone era sempre più scontento.
«Se continuo così, scoppio!», disse una sera.«Ho deciso: domani sparirò. Ho adocchiato un tetto malandato, sul quale nessuno potrà salire a cercarmi. Mi basta un calcione un po' deciso...». Così fece.
Riuscì a finire tra i piedi di Adriano, detto Bombarda, per i suoi rinvii alla «Viva il parroco», e un poderoso calcione lo scagliò sul tetto proibito del caseggiato prospiciente il cortile dell'oratorio.
Mentre volava in cielo, il pallone brontolone rideva felice: ce l'aveva fatta.
I primi tempi sul tetto furono una vera pacchia.
Il pallone brontolone si sistemò confortevolmente nella grondaia e si preparò a una interminabile vacanza.
«Ho chiuso con i calci e le botte», pensava con profondo compiacimento, «nel mio futuro non ci saranno che aria buona e riposo. Aaaah, questa è vita!».
Ogni tanto, dal tetto, sbirciava in giù e guardava il suo compagno scalciato a più non posso dai ragazzi del cortile. «Poverino», bofonchiava, «lui prende calci e io me ne sto qui a prendere il sole, pancia all'aria dal mattino alla sera».
Un giorno, un calcio possente glielo mandò vicino.
«Resta qui!», gli gridò il pallone brontolone. Ma l'altro rimbalzò sull'orlo della grondaia e tornò nel cortile.
«Preferisco i calci!».
Passò il tempo.
Nella grondaia, il pallone brontolone si accorse che sole e pioggia lo avevano rapidamente fatto screpolare e ora si stava gradatamente sgonfiando.
Divenne sempre più debole, tanto che non riusciva più neppure a lamentarsi.
Del resto, non gliene importava molto: sempre solo, lassù, era diventato triste e depresso.
Così una sera esalò un ultimo soffio.
Proprio in quel momento, l'altro pallone veniva riportato nell'armadio da due piccole mani. Prima di finire nel cassetto buio, sentì una vocina che gli diceva: «Ciao, pallone, ci vediamo domani». E due labbra sporche di Nutella gli stamparono un bacione sulla pelle ormai rugosa.
Nel suo cuore leggero come l'aria, il pallone si sentì morire di felicità. E si addormentò sognando il paradiso dei palloni, dove gli angioletti hanno piedini leggeri come le nuvole.